martedì 17 dicembre 2013

VIAGGIATORI NELLA NOTTE


VIAGGIATORI NELLA NOTTE
Un libro di Bartolo Federico
illustrazioni di Giovanni Lo Re



È stata la musica che mi ha protetto dalla pazzia ed è venuta a stanarmi fin dentro la mia stanza anonima della mia anonima casa di periferia. Quella che bussava alla porta era una generazione cresciuta ascoltando Hendrix, Jim Morrison, Stones, Velvet, Mott The Hoople, Who, Kinks. Una generazione che prendeva in prestito la poesia di Baudelaire e di Rimbaud e la trasformava in energia, in rock’n’roll. E tutti prendevamo coscienza, per emanciparci, per crescere.
Bartolo Federico – Viaggiatori nella notte

Un viaggio a fari spenti nella notte, attraverso le strade del blues, le chitarre slide alla fermata degli autobus, le file al collocamento, quei risvegli che sanno di alcool e rimpianto.
Bart ci accompagna, tenendoci la mano, tra le miserie, gli eroismi, i marciapiedi e i dischi di una vita spezzata ma non infranta, piegata ma non rotta.
Il tutto avvolto in una caldissima, sabbiosa, dolciastra, meravigliosa atmosfera blues.
Racconti che hanno la Musica come assoluta protagonista.
Un progetto che nasce dal desiderio di “preservare” i racconti comparsi sul blog Dustyroad:

e anzi renderli in una forma letteraria più consona al loro valore.
Tutte le illustrazioni sono state realizzate da Giovanni Lo Re, autore del blog Badit:

La versione cartacea del libro è disponibile all’indirizzo:
Il prezzo è il minimo consentito, nessuno ha margine di guadagno… E se siete interessati, fate un fischio ad Evil Monkey (theevilmonkeysrecord@libero.it), che ha curato il progetto e magari ha possibilità di reperirvi qualche copia gratuita…
La versione digitale è disponibile al seguente indirizzo:
Il blues, al contrario, potete trovarlo ovunque: per le strade dell’alba, sugli autobus della sera, davanti alle vetrine agghindate di esteriorità, sul marciapiede della stazione, aspettando un treno in ritardo di 3 ore.
Sui database digitali, come nel piccolo negozio di dischi, giù all’angolo.

Le loro canzoni non avevano produttori. Quelle canzoni ascoltate oggi, a distanza di ottanta e più anni, sono tali e quali a quelle che suonavano nelle strade, nelle feste o davanti alle loro case, e non hanno perso un briciolo della loro forza, della loro poesia. Per questo, definire il blues la purezza assoluta della musica non è esagerazione.

Soffiate via la polvere che c’è un tesoro nascosto.

lunedì 2 settembre 2013

Hail To The King - Musica pesante per ascolti leggeri


"Sarà un disco pesante, senza cazzate dubstep o elettroniche, il sound sarà old school", questa era stata la dichiarazione rilasciata diverse settimane fa dagli Avenged Sevenfold riguardo a "Hail to the king", sesto lavoro della band californiana capitanata da M. Shadows. Ecco, questo è il tipo di dicharazione che insinua a tempo zero diversi dubbi su quello che potrà essere il risultato, soprattutto se si sta parlando di una band come gli A7X, nata quando l'era del metal classico era finita da una buona decina d'anni e caratterizzata - se non altro per ragioni anagrafiche - da un sound molto derivativo e influenzato dalle deviazioni stilistiche più disparate, dal glam all'industrial, dall'hardcore punk al metalcore, fino alle derive dell'alternative metal (sempre che si possa seriamente dare una definizione di "alternative").

Una "nuova fase" l'hanno chiamata Shadows e soci, una fase di ricerca delle radici della propria musica, di "ritorno al passato" se vogliamo, che però porta con sè un concreto rischio, e cioè quello di scavare a fondo, arrivare alle radici, ma non essere in grado di afferrarle. Non si tratta di una questione tecnica (se così fosse i dubbi sarebbero molti meno), ma soprattutto cognitiva, perchè senza stare a fare discorsi retorici - di quelli che "I Sabbath fino a Master Of Reality, i Metallica fino al Black Album e i Judas Priest fino a British Steel, il resto è merda derivativa" - va detto che viaggiare fino alle origini di una musica di cui non si sono vissuti gli anni migliori è un'operazione non facile, perchè la contestualizzazione storica ha la sua importanza, ma anche e soprattutto perchè prevede uno spietato confronto con artisti, gruppi ed album fondamentali che non ammette scusanti: se si dichiara apertamente di andare alle radici del metal è inevitabile che titoli come "Paranoid" facciano la loro apparizione, e nessuno si sognerà mai di dichiarare un album di questi anni migliore del debutto dei Sabbath, ma in fondo è proprio quel tipo di sound, quell'approccio e quelle vibrazioni che ci si aspetta di trovare, così come nel nostro caso - visto che Zacky Vengeance ha dichiarato che il gruppo si è concentrato "sul core dell'heavy metal" - nel bene o nel male, giusto o sbagliato che sia, il giudizio deriverà sempre e comunque da quanto Rob Halford o Bruce Dickinson potrebbero storcere il naso o quante volte il compianto Ronnie James Dio si rivolterebbe nella tomba...

Nell'ottica di questi indeclinabili raffronti, ascoltando "Hail to the king" la prima domanda che salta in mente è sul motivo per cui gli Avenged Sevenfold abbiano sentito il bisogno di fare un album come questo; perchè incidere undici brani che altro non sono che citazioni, tributi e scopiazzature nemmeno troppo rielaborate dei mostri sacri di cui si parlava poco fa? Quel che viene da pensare è che per afforntare questa "nuova fase" la band abbia bisogno in qualche modo di ripartire dai fondamentali, e allora prima di tutto via definitivamente il cantato metalcore e spazio ad una vocalità che con gli anni ha deviato sempre più verso un approccio più classico, heavy e a tratti epico. Secondo elemento "nuovo" è sicuramente la predominanza di riffoni ed assoli chitarristici tipici del genere, mai così presenti nei precedenti lavori del gruppo, così come la componente epica, dai rintocchi di campane a morto che aprono l'iniziale "Sherpard of Fire" fino alla intro corale in latino di "Requiem". Anche la batteria si fa più canonica e detta i tempi della vera "mutazione" del sound A7X, perchè con i tempi regolari svanisce ogni possibile attitudine punk sia nel cantato che nella ritmica, per la quale il basso resta imbrigliato nelle strette logiche di un sentiero ben delineato. Non è assolutamente un male, nessuno si aspetta qualcosa di nuovo da un album dichiaratamente heavy metal, ed ogni reinterpretazione o rielaborazione di un sound considerato "classico" porterebbe fuori dal seminato, oltre la definizione del genere incanalandosi in sottogeneri più o meno moderni; quel che però suona straniante (se non un punto di demerito soprattutto dal punto di vista dei fan della prima ora) è il fatto che ad intraprendere questo percorso sia una delle band che maggiormente negli ultimi anni ha dimostrato di saper rendere originale una musica estremamente derivativa quale è per forza di cose il metal suonato negli anni '10 del ventunesimo secolo, mettendoci del proprio, mescolandola con stili ed approcci differenti, e così sentirli non solo suonare heavy metal, ma un heavy metal di facile ascolto - quasi radio-friendly si potrebbe azzardare - assomiglia molto ad un segno di cedimento perlomeno in quel che riguarda l'originalità e la creatività.

Non fraintendetemi, "Hail to the king" è un album che si lascia ascoltare più che degnamente, è suonato in modo impeccabile e di certo è poco criticabile se analizzato singolarmente e slegato da logiche di continuità stilistica o altro, ma altrettanto certo è che non nasconde nulla, che difficilmente ci si possano trovare delle chicche o degli spunti degni di nota, insomma, si presta benissimo ad un ascolto anche distratto, nelle nottate stanche passate a cazzeggiare in gruppo o nelle cuffie dell'i-pod per darsi la carica mentre si fa jogging. Non un disco essenziale quindi, ma forse - credo che il beneficio del dubbio sia ancora applicabile - semplicemente un album di passaggio prima di un prossimo cambio di rotta definitivo e (speriamo) più ispirato; se così fosse ben vengano le pesanti scopiazzate (parlare di citazionismo è troppo poco) da Guns N'Roses ("Doing Times"), Metallica ("Hail to the king") e Iron Maiden ("Coming home"), ben vengano anche "Crimson day" e la bonus track "St. James", rispettivamente power ballad e classicone metal in crescendo pescate a piene mani ancora una volta dal repertorio di James Hetfield e soci, se heavy metal classico dev'essere che così sia!

Stiamo a vedere quel che succederà con i prossimi lavori, ma nel frattempo - nonostante qualche pecca soprattutto nella seconda parte del disco - l'ascolto di "Hail to the king" passa senza problemi le prove air guitar e headbagging, e per questo si merita la sufficienza, l'heavy metal - sound old school o no - in fondo è anche questo...

Voto: 6

Tracklist

 1. Shepherd of Fire
 2. Hail to the King
 3. Doing Time
 4. This Means War
 5. Requiem
 6. Crimson Day
 7. Heretic
 8. Coming Home
 9. Planets
10. Acid Rain
11. St. James (Bonus track)




venerdì 30 agosto 2013

Provaci ancora Trent!


Sottotitolo: Se vuoi fare la fine dei Muse sei sulla strada giusta...

"Hesitation marks" è l'album che segna il ritorno dei Nine Inch Nails di Trent Reznor. Ritorno, oltre che nei negozi di dischi, sulle scene live di un po' tutto il mondo a ormai oltre 4 anni di distanza dalla "pausa dalle attività live" annunciata dallo stesso Reznor sul sito della band, e forse è da qui che dobbiamo iniziare, perchè dopo qualche anno di assenza è proprio dal vivo (i NIN sono passati in quel del forum di Assago mercoledì scorso per l'unica data italiana del loro tour) che si possono fare le migliori considerazioni sullo stato della band.

Iniziamo dalla serata di mercoledì quindi. Concerto sold-out da tempo (e del resto sarebbe stato veramente difficile aspettarsi qualcosa di diverso), parterre foltissimo e animi pronti al pogo, poco dopo le 20 ci pensa il gruppo spalla a scaldare la folla, sul palco salgono infatti per l'occasione i Tomahawk dell'ex Faith No More Mike Patton, un'esibizione breve ma intensissima, un crescendo ritmico tanto potente da lasciare sconvolti i silenti spettatori, che non possono far altro che "subire" attoniti la performance del supergruppo statunitense, condita da qualche frase in italiano scandita dal buon Patton, che sulla meritatissima standing ovation finale commenta "Siete molto generosi per una band spalla". Beh, se tutte le band spalla fossero così non ci sarebbe bisogno degli headliner... L'adrenalina sale e poco dopo, a luci ancora accese entra in scena il protagonista della serata, Reznor fa il suo ingresso sul palco completamente vuoto e si gode lo stupore del pubblico, che non fosse per l'abnorme massa muscolare forse l'avrebbe scambiato per uno qualunque dei tecnici. Il concerto inizia così, con Egocentrismo Reznor al centro di un palco vuoto che, mani poggiate sulla tastiera elettronica, attacca con "Copy of A", estratto dal nuovo lavoro, mentre pian piano anche gli altri membri della band fanno capolino sul palco armati di sole strumentazioni elettroniche. E' soltanto l'inizio, ma sono già chiari almeno due aspetti, il primo è il taglio (fin troppo) sintetico che prenderà lo spettacolo, e il secondo è che l'ego di Trent Reznor farebbe impallidire il Re Sole.

Da qui in avanti sono due ore quasi ininterrotte che confutano in tutto e per tutto le prime impressioni... Reznor è sempre al centro della scena, sempre con un occhio di bue puntato in testa, di colore diverso rispetto agli altri, e spesso è persino l'unico visibile mentre il resto della band è in controluce o addirittura al buio completo, perennemente un passo davanti agli altri sul palco, e - quando non lo è - si piazza su una pedana rialzata, per la serie "Io sono io e voi non siete un cazzo".... E' proprio questo l'atteggiamento, non solo nei confronti della band, ma anche verso il pubblico: probabilmente nella mente del frontman il pubblico è lì soltanto per adorarlo e idolatrarlo, e per questo non azzarda nessun tipo di rapporto con la folla, spiccica qualche "Thank you" tra un brano e l'altro e scende dal palco una sola volta senza immergersi troppo nel pubblico, ma nulla più. In compenso l'esibizione è davvero potente, con volumi da sordità ed effetti visivi decisamente ben riusciti, due su tutti le centinaia di luci da ogni punto del palco e l'intelligente utilizzo dei pannelli che brano dopo brano vengono spostati quasi ossessivamente, tanto per proiettare immagini, ombre, video ed effetti vari, quanto per mascherare l'enorme lavoro dei tecnici nello spostare le strumentazioni a tempo di record. E' la componente visiva il fulcro di tutto lo show, durante il quale i NIN srotolano una setlist di ben 25 brani, equilibrati e molto furbescamente distribuiti lungo la serata, con classiconi quali "Closer" o "Head like a hole", pezzi vibranti come "The wretched", ma soprattutto interminabili intermezzi elettronici, ed è qui che casca l'asino, perchè non a caso i brani più allungati sono quelli più droneggianti, riverberati e gracchianti, insomma, pare proprio che il quasi cinquantenne Trent - nonostante chitarra alla mano ci dia dentro pesantemente - abbia bisogno fin troppo spesso di abbandonare i ritmi da pogo e urla per mettersi comodo di fronte alla consolle e riprendere fiato...

Lo spettacolo e il divertimento comunque ripagano ampiamente il prezzo del biglietto, e se così non fosse bastano i cinque minuti della conclusiva "Hurt" a mettere tutti d'accordo ('chè i classiconi a questo servono: canto corale, accendini accesi e tutto il resto non conta più), ma resta comunque addosso una sensazione straniante, la stessa che si prova mettendo "Hesitation marks" nello stereo. L'attacco è affidato a "The eater of dreams", un crescendo gracchiante che assomiglia alle inquietanti intro di album black o doom metal, ma ci pensa "Copy of A" a troncare il discorso: non ci sono chitarra basso e batteria picchiati duro ad aspettarci dietro il muro, ma tastiere, drum machine, synth e diavolerie eletttoniche varie. Si sale e si scende in continuazione con bpm e volumi quasi fossimo sulle montagne russe, con accelerate violentissime come "In two" o "Running" e improvvisi rallentamenti come "Find my way", un'intro alla soglia dell'ambient seguita da un crescendo sonoro in perfetto stile post-rock nordico, un po' Bjork e un po' Sigur Ros, ma non illudetevi, è soltanto qualche breve parentesi, per la gran parte della durata dell'album a farla da padrone sono riverberi elettronici, echi quasi obnubilanti, organetti, deviazioni rumoristiche e muri sonori.

Dove sono finite le chitarre? Niente, quasi nessuna traccia, giusto qualche accenno qui e là, quasi sempre zavorrate dai synth, e la batteria? Soppiantata in toto dalla drum machine. Stessa sorte per il basso, sacrificato in favore dei riverberi. Come si poteva già prevedere da alcuni precedenti quali "With Teeth" e "Ghosts I-IV", Trent Reznor (inutile parlare di Nine Inch Nails quando è più che evidente chi sia il solo a portare i pantaloni in casa) è arrivato dopo anni di sperimentazioni ad un punto di svolta cruciale, uno di quei momenti in cui ci si trova ad un bivio e si sceglie una strada; bene, Trent sembra aver ingranato la quarta in direzione dell'electro-minimal. Scelta artistica di tutto rispetto, non fosse che i dubbi sorgono sempre più man mano che si prosegue nell'ascolto di "Hesitation marks", perchè se la scelta dell'elettronica a discapito del suono "analogico" è chiara non lo sono altrettanto i moltissimi richiami a generi più o meno "di tendenza", tracce di dubstep qui e là, un poco di drone, melodie scopiazzate dai Depeche Mode, rumori danceggianti presi in prestito da Daft Punk, e poi "Everything", settima traccia del disco, messa lì nel mezzo, nel pieno delirio allopatico 3 minuti di schitarrate violente, batteria in picchiata duro e ritmo post-punk....

E allora che cos'è questo "Hesitation marks"? Sono questi i segni di esitazione? Reznor vuole lanciarsi nel profondo delle sonorità minimali ma non riesce ad allontanarsi dall'adrenalina di una chitarra? Oppure è un modo per lasciare aperte le porte verso sperimentazioni con i generi più disparati? Non è dato sapere cosa ci sia nella sua testa, forse un geniale grande disegno che i comuni mortali non possono capire, o forse, ed è questo che - con un forte dolore al petto - mi viene da pensare, un'enorme, atomica, allucinante furbata, un minestrone di tutto e niente, un pot-pourri di esitazioni, accenni, citazionismo e autoerotismo ritmico. Tra pochi giorni saranno qui tutti a celebrare questo album come l'opera di un genio totale (l'ho già sentito paragonare a "The Downward Spiral" e mi è venuta l'orticaria), e sono pronto a ricevere gli insulti di chi mi dirà che non capisco la portata artistica del disco, o che mi dirà che il rock è morto e il futuro è questo, sarà, ma se fino a pochi anni fa avrei paragonato Trent Reznor a gente come Blixa Bargeld o Brian Eno, ora, dopo il quindicesimo ascolto di questa onanistica ora e venti minuti di autocelebrazione, l'unica vera similitudine la trovo con Matthew Bellamy e i Muse del pessimo "The 2nd law".

Spero sia soltanto un passo falso, perchè alla prova live - fiatone a parte - i NIN hanno dimostrato di essere ancora in grado di fare un gran bel casino, e perchè in fondo la speranza è l'ultima a morire, tu provaci ancora Trent, io aspetto fiducioso e torno ad ascoltare "Hurt"...

Voto: 4,5

Tracklist

1. The Eater of Dreams
2. Copy of A
3. Came Back Haunted
4. Find My Way
5. All Time Low
6. Disappointed
7. Everything
8. Satellite
9. Various Methods of Escape
10. Running
11. I Would for You"
12. In Two"
13. While I'm Still Here
14. Black Noise

Bonus Track - Versione Deluxe

15. Find My Way (Oneohtrix Point Never Remix)
16. All Time Low (Todd Rundgren Remix)
17. While I'm Still Here (Breyer P-Orridge 'Howler' Remix)






lunedì 26 agosto 2013

Da wildwood con furore


A leggere la biografia di Dana Fuchs sembra di trovarsi di fronte all'ennesimo film pseudo-favola-romantico-musicale stile "Le ragazze del coyote ugly", ma per questa volta le logiche da botteghino facile non c'entrano, è tutto vero... Eppure gli elementi ci sono tutti: c'è una famiglia numerosa che fa tanto americani conservatori (Dana è la più giovane di ben sei figli), c'è una passione per la musica che nasce prestissimo e pare diventare l'unica ragione di vita, tanto che Dana - poco più che adolescente - annuncia alla famiglia "vado a New York per cantare il blues". Certo, Dana arriva da Wildwood, che - nonostante il nome molto cinematografico - è una piccola cittadina della Florida e non un villaggio di bovari sperduto nell'Arkansas o nel Montana come il manuale della commediola romantico-musicale insegna, ma per il resto la sua storia assomiglia non poco ad una "favola moderna" se così la vogliamo chiamare, corredato da tragedie che le lasceranno il segno, e dall'immancabile lieto fine con il sogno della musica che si realizza...

La simbiosi tra Dana e la musica comincia prestissimo, anche i suoi fratelli maggiori infatti ci si dedicano e il risultato è che Dana cresce fin da piccola circondata dalla musica; a 12 anni si unisce al First Baptist Gospel Choir, dal quale apprende una forte inclinazione al soul, mentre a 16 anni entra a far parte di una blues band locale. Da qui in avanti il blues e il soul non la abbandoneranno mai più e faranno da fondamenta per una carriera che comincia pochi anni dopo, con l'approdo tra le confusionarie strade di New York, tra le quali - come da copione - Dana non si sente a suo agio, fin quando, a 19 anni, la notizia del suicidio della sorella la sconvolge ma allo stesso tempo la spinge a mettere tutta sè stessa nella musica. Inizia così a girare tra i locali blues di New York partecipando ad alcune sessioni di improvvisazione, ed è proprio in una di queste serate che conosce Jon Diamond, già chitarrista di Joan Osborne e Debbie Davies, insieme al quale fonda la Dana Fuchs Band. La band diventa ben presto famosa nell'ambiente, e nel giro di un anno Dana e i suoi si ritrovano a condividere il palco con John Popper, James Cotton e Taj Mahal. Passano altri due anni caratterizzati da un'intensissimo allenamento vocale, dopo i quali Dana - con la collaborazione di Jon - scrive nuovi brani e torna a calcare la scena. Questa volta i nomi si fanno più grossi, sia quelli dei locali - The Spephen Talk House e BB King's, tanto per dirne un paio - che quelli degli artisti con cui Dana condivide il palco, due su tutti quelli di Marianne Faithful e Etta James. Nel 2003 arriva l'album di debutto, "Lonely for a lifetime", accolto con entusiasmo da pubblico e critica, e dopo il quale Dana viene chiamata per interpretare nientemeno che Janis Joplin nel musical "Love, Janis" e per quella di Sadie per il film "Across the universe" (ve la ricordate la biondona che canta Helter Skelter?...). A "Lonely for a lifetime" seguono "Live in NYC" del 2008 (l'album è difficile da reperire ma l'ascolto vale lo sforzo, provare per credere...), il non entusiasmante "Love to beg" del 2011, ed infine la sua ultima fatica, "Bliss Avenue", pubblicato a luglio di quest'anno.

Una nuova tragedia familiare - la morte del fratello - ha assestato un nuovo colpo basso a Dana, che però risponde con una prova di forza, la sua prova migliore finora, 12 tracce lungo il sentiero del blues e del rock, con contaminazioni soul, country, e persino hard rock, con riffoni seventies che sanno di Zeppelin, attimi country e profonde divagazioni soul, il tutto condito da una passione più che palpabile. Il risultato è un album senza il minimo cedimento, solido, con un Jon Diamond in stato di grazia che - come Joe Bonamassa con Beth Hart - serve ottimi assist elettrici per Dana ,che si destreggia apparentemente senza la minima fatica tra le atmosfere honky tonk di stonesiana memoria di "How Did Things Get This Way", le cavalcanti sgroppate polverose di "Rodents in the Attic", tra i brani migliori del disco, passando addirittura per tracce di pop rock anni '80 ("Long long game" sembra scritta, suonata e cantata dalla premiata ditta Sambora-Bon Jovi) e ritmi tra R&B e gospel. In mezzo c'è tutto, c'è "Daddy's little girl", pezzo che - mi perdonino i fan del boss se pare una bestemmia - ricorda lo Springsteen più allegro, ci sono le ballate come l'elettroacustica "Baby loves the life" - forse il più radio-frendly dei 12 pezzi, che non mi stupirei di trovare presto nella soundtrack di qualche commedia romantica -, l'acustica "Nothin' on my mind" con il suo sapore di far west, e infine "So hard to move", dal sound morbido e carezzevole, ma dalla voce consumata e intensa, sentimentale e vibrante come è giusto che sia un brano scritto sul letto di morte del proprio fratello; un pezzo da ascoltare lontano dai superalcolici. Non manca neppure il rock, quello classico, elettrico e sprezzante, quello di "Keep on walkin'", pezzo senza fronzoli, un po' tamarro forse, ma certamente da ascoltare a volume altissimo; e poi ancora il lato soul di Dana che prende il sopravvento in "Vagabond wind" e sfocia nell'R&B della splendida "Livin' on sunday", con i suoi cori gospel a sostenere la potente voce della Nostra. Sembra di essere tornati indietro di qualche decennio, quando una gran signora di nome Tina Turner scriveva intere pagine di storia, e certo Dana Fuchs non sarà mai LA leonessa, ma di certo sa mordere e - soprattutto - ruggire... Se ne volete la prova basta mettere il cd nello stereo e premere play, se il paragone con la Turner vi sembrava esagerato la traccia di apertura e l'aura di Janis Joplin che le aleggia intorno vi faranno cambiare idea: la title track è un violento ruggito in salsa electric-blues, con chitarra cadenzata, batteria ad incedere costante e qualche breve svisata del buon Diamond, un sound che odora di Led Zeppelin a km di distanza, perfetto per Dana, che tira fuori tutto quello che ha dentro, armata di una voce ruvida come la carta vetrata scava nel profondo, si affaccia sulla voragine, e tra le viscere del suono trova l'anima del blues, la graffia e regala una canzone che vale un album intero.

Voto: 8,5

Tracklist

 1. Bliss Avenue
 2. How Did Things Get This Way
 3. Handful Too many
 4. Livin’ on Sunday
 5. So Hard to Move
 6. Daddy’s Little Girl
 7. Rodents in the Attic
 8. Baby loves the Life
 9. Nothin’ on My Mind
10. Keep on Walkin’
11. Vagabond Wind
12. Long Long Game




venerdì 23 agosto 2013

Chi non muore si rilegge....


Mamma mia che desolazione che ho lasciato da queste parti!

Direi che è ora di ricominciare, nuovo layout, nuova immagine per il titolo, blog in modalità on, e speriamo che sia la volta buona....

Nel frattempo vediamo di scrollare via un po' di polvere, volume al massimo e facciamo un po' di casino! A tra pochissimo!



martedì 7 maggio 2013

Gouton rogue & Apash twenty twelve - Everest



Non è semplice fare una musica che parli di emozioni e sentimenti, di qualunque tipo di sensazioni si tratti, belle o brutte che siano saranno sempre complesse da riassumere nei pochi minuti di una canzone, ma quando un artista o una band ci riescono bastano pochi secondi per rendersene conto, ed è proprio quel che succede ascoltando “Everest“...

I Gouton Rouge sono quattro ragazzi sfuggiti per questioni anagrafiche a correnti musicali alle quali ora guardano con quella strana nostalgia che si prova verso epoche mai vissute, quella nostalgia che ti fa dire “Ah, se fossi nato 10 anni prima!...” e che nella musica spesso finisce per definire influenze stilistiche e gusti personali; è così che i Gouton Rouge si appassionano allo Shoegaze, ed è verso le  atmosfere eteree e i suoi muri sonori fatti di riverberi e suoni dilatati tipici del genere che scelgono di indirizzare la loro musica, incidendo due ep (“Rogues” del 2011 e “Cambiamo casa” del 2012) di grandissimo impatto, loro dicono di non essere ancora arrivati a fare shoegaze ma ad ascoltare questi due lavori pare proprio il contrario...

Altra storia è invece quella degli Apash Twenty Twelve: la band nasce nel 2000 e in dodici anni incide 3 album passando attraverso numerosi cambi di formazione e deviazioni stilistiche, l’iniziale garage-punk vira anno dopo anno verso le plumbee lande del minimal-dark e del Sad-core, e dall’iniziale formazione a tre con il passare del tempo si arriva a 2, a 4 e infine ad un solo componente: Fabio Armando Patini; è lui la voce e l’anima di quello che ormai è divenuto un interessantissimo progetto One Man Band di cantautorato moderno, a tratti sperimentale, fatto di chorus, effetti gracchianti e mood oscuri e sofferti.

Due storie differenti, due generi sonicamente agli antipodi, eppure qualcosa che lega i Gouton Rouge con Apash c’è, e non c’entra il fatto che entrambi siano di Busto Arsizio; quello che accomuna i due progetti è l’attitudine emozionale delle rispettive musiche, la voglia di trasmettere sensazioni ed emozioni prima ancora che parole e messaggi, e per nulla incide il fatto che le atmosfere malinconiche ma musicalmente energiche dei primi paiano molto distanti dalle tenebrose sensazioni da valle di lacrime del secondo, le emozioni sono semplicemente emozioni, bianche o nere che siano si troveranno sempre sulla stessa lunghezza d’onda, proprio come Gouton Rouge ed Apash, che – incontratisi – decidono di collaborare alla realizzazione di un album condiviso; ciò che ne nasce è uno split di 6 brani pubblicato lo scorso gennaio sotto il titolo “Everest”.

Tre brani a testa, se non fossimo stati nell’era del digitale si sarebbe detto “lato A e lato B”, e mai scelta sarebbe stata più azzeccata, perché in casi come questo avere un lato A ed un lato B aiuta ad assimilare meglio, basta infatti stoppare il disco alla fine del terzo brano, giusto quei pochi secondi che sarebbero serviti a ribaltare il vinile sul piatto e riappoggiare la puntina, per cambiare in meglio l’ascolto, per inserire un distacco, un piccolo intervallo tra primo e secondo atto sufficiente per assorbire in modo più completo le vibrazioni dei brani.

Il “Lato A” è affidato ai Gouton Rouge, che rispetto ai lavori precedenti abbassano l’asticella dello shoegaze a favore di più marcate linee tipicamente alternative-rock, senza però abbandonare l’attitudine alla melodia che li contraddistingue. “Josef K”, “Wessels” e “Sentimento, tre brani malinconici ed intimi che uno dopo l’altro aumentano di intensità ed espressività, brani sentiti e sudati che parlano a cuore aperto di delusioni cocenti, speranze in bilico e di quei ricordi che “ci assillano, attraversano, trafiggono, bruciano, uniscono”. Quando la splendida “Sentimento” volge al termine viene da chiedersi perché i quattro non abbiano inciso semplicemente un ep con questi 3 pezzi a cui non manca assolutamente nulla, ma la risposta arriva ben presto e si rivela una piacevolissima sorpresa....

Mettiamo in pausa, prendiamo fiato e ripartiamo, il protagonista del secondo atto è Apash, chitarra, voce e qualche giochetto elettronico, niente di più, e la storia cambia, il cantato in italiano lascia spazio a quello inglese, la luce si abbassa, le emozioni si fanno agre ed alla malinconia si aggiunge una buona dose di disillusione; a dispetto degli speranzosi titoli, “Beautiful”, “Wish” e “I’m flying” sono pezzi da pugni contro il muro, introspettivi e in alcuni momenti davvero debilitanti, con la voce di Apash che vibra quel tanto che basta per trasmettere le sofferte sensazioni descritte dai testi.

Gli effetti rumoristici industrial di “I’m flyng” mettono la parola fine a questo interessantissimo lavoro, sono passati poco più di 20 minuti, ma le vibrazioni sono state tante e soprattutto intense, cosa riserverà il futuro per i Gouton Rouge e per il solitario Apash non è dato sapere, ma quando si sanno trasmettere le emozioni con classe non c’è che da sperare in bene....

Voto: 8

Tracklist

1. Josef K
2. Wessles
3. Sentimento
4. Beautiful
5. Wish
6. I’m flying


Recensione pubblicata su Oubliette Magazine

sabato 20 aprile 2013

Aidan - The Relation between Brain and Behaviour



La musica, in qualsiasi direzione artistica la si intenda, è e deve essere prima di ogni altra cosa evocativa, che ciò da evocare sia un’immagine, una sensazione, un’idea, un ricordo o chissà cos’altro; in questo senso spesso le parole non servono, la sola musica disegna scenari di ogni tipo, e quando si parla di doom metal gli scenari sono quelli più oscuri dell’animo umano…

È negli abissi dell’anima e della mente umana, lì dove restano rinchiusi incubi, stranezze, ossessioni e paure, che ci si trova ad attraversare gli anfratti più bui dell’esistenza, dove l’inconscio prende il sopravvento e la luce filtra ben poco, dove la vista è occlusa e bisogna procedere a tentoni, ed è proprio qui, tra ombre scure e pochi, pochissimi spiragli luminosi che comincia questa storia, una storia strana e non poco inquietante, la storia di un uomo normale a cui la vita volle giocare uno strano scherzo, un tiro mancino che lo cambiò radicalmente, inoltrandosi nel buio abisso della sua mente, scalfendo le pareti portanti del conscio e dell’inconscio e consegnando Phineas Gage – questo era il suo nome – alla storia… Phineas era un operaio americano addetto alla costruzione delle ferrovie, un lavoratore, un uomo per bene, un uomo come tanti, fino al pomeriggio di quel fatidico 13 settembre 1848, quando un incidente gli cambiò per sempre la vita.

Durante il lavoro Phineas venne colpito alla testa da un’asta di metallo che gli trapassò il cranio, ma che – incredibilmente – non lo uccise; l’uomo sopravvisse e, fatto ancora più stupefacente, la sua ripresa dal trauma fu praticamente immediata, ma non fu più il Phineas di prima, il suo comportamento cambiò definitivamente, e quello che prima dell’incidente era un uomo gentile divenne scontroso, irascibile ed incontrollabile, la sua personalità cambiò di colpo a causa di quell’asta di metallo, che lo lobotomizzò, rendendolo incapace di valutare i rischi delle proprie azioni e trasformandolo a conti fatti in un’altra persona, fisicamente sana, ma irrimediabilmente condannata a vivere un incubo.

Una storia degna di un film horror, ed ancor più inquietante proprio perché realmente accaduta: l’incidente di Phineas Gage infatti è stato ed è ancora oggi oggetto di studio nell’ambito della neurochirurgia, ed è uno dei punti sui quali si basarono le teorie che portarono alla pratica – fortunatamente abbandonata – della lobotomia frontale, ma non è per raccontare la storia della medicina che siamo qui, bensì per fare un viaggio, un viaggio al centro della mente umana, lì dove la sorte ha colpito con tutta la sua forza il povero Phineas, lì dove un bel giorno, senza nessun apparente motivo, la luce si spegne e si sprofonda nell’oblìo. Ad accompagnarci in questo viaggio troviamo gli Aidan, trio padovano incline al post-metal ed alle sue deviazioni più oscure e doom, nulla di più azzeccato per addentrarsi nei meandri di un cervello sconvolto, di un animo shockato…. “The relation between brain and behaviour“, così si intitola l’album di debutto della formazione veneta, pubblicato il 21 gennaio scorso, un album tenebroso, plumbeo come la sua copertina, un concept perennemente in bilico tra linee di basso imponenti e vibrazioni drone, incentrato sulla vicenda di Phineas, in qualche modo inquadrata dall’interno, come se a fare da narratore lungo i 7 brani che compongono il disco ci sia lo stesso Phineas, con tutte le sue personalità…

Come da copione non troverete una sola parola nei brani dell’album, perché il doom per definizione è strumentale, a suo modo psicologico e l’utilizzo della voce sarebbe soltanto un elemento di distrazione dall’evocatività del suono, dai brividi che inquietano e trasportano proprio dove gli Aidan ci vogliono portare, nei cunicoli stretti ed imprevedibili di una mente deviata; e allora fate un respiro profondo, il cd è nello stereo e la discesa comincia….

Si parte con “Lebanon, 1823“, intro dall’inflessione distesa e dai suoni dilatati, un inizio dai toni grigi, apparentemente morbidi, che introduce la successiva “No longer Gage”, progressione ripetitiva ed ossessiva in cui ad ogni giro la tensione si alza, diventa palpabile, le linee si fanno più scure, la batteria inizia a far sentire la sua presenza, e sul crescendo finale nuvole nere si affacciano per il terzo brano. “Left frontal lobe” è il punto di svolta del racconto e dell’album, è qui che accade il patatrac, è in questo momento che la mente del protagonista viene sconvolta, deviata dall’avversa sorte, le luci si spengono del tutto, e quello che finora sembrava un sentiero ben tracciato incontra un baratro, un strapiombo travestito da una cavalcata al limite del black, non fosse per le potenti sferzate drone che giocano con i tempi pigiando ora sull’acceleratore ed ora di colpo sul freno.

Da qui in avanti quel che c’era prima non ci sarà mai più, e a darcene la conferma arriva “Dr. John Martyn Harlow”, un macigno sonoro che procede come un rullo compressore tra chitarre sempre più incisive, linee melodiche di Sabbathiana memoria ed un crescendo ritmico compulsivo, la mente e l’animo sono irrimediabilmente turbati, le visioni distorte e “Pulse 60, and regular” – che di fatto rallenta il ritmo – con il suo ambient-drone obnubilante incute nuove paure, insinua un nuovo terrore che si muove nel buio più totale in cui ci si ritrova a questo punto. Stiamo giungendo al termine del viaggio, ma in fondo al tunnel non c’è nessuna luce ad attenderci, è il buio a farla da padrone, e “Ptosis” nè è la dimostrazione più alta, una vibrazione inarrestabile, una serie di passi mossi tra i cunicoli umidi e freddi di un razioncinio che non c’è più, un avanzare inquieto, stanco e sconvolto che porta all’inevitabile declino finale di “Lone mountain”, gelido sludge violentemente cadenzato dalla batteria, snervante nei suoi oltre 8 minuti di durata, ma più che mai incisivo e azzeccato per terminare il racconto.

È meglio chiarirlo, non è un album di facile ascolto “Between the brain and the behaviour”, come non è un genere di facile ascolto il doom, che qui spadroneggia su tutte le altre più o meno marcate deviazioni stilistiche, non lo è ed è giusto così, ma se le atmosfere cupe delle inquietudini vi sono affini, se siete disposti ad ascoltare un incubo in musica senza lasciarvi fermare dal polso che aumenta e diminuisce bruscamente da un secondo all’altro, allora “Between the brain and the behaviour” fa per voi, ascoltare per credere…

Voto: 7,5

Tracklist

1. Lebanon, 1823
2. No longer Gage
3. Left frontal lobe
4. Dr. John Martyn Harlow
5. Pulse 60, and regular
6. Ptosis
7. Lone mountain



Recensione pubblicata su Oubliette Magazine